Il vociare della gente, come un vento caldo di scirocco, si era insinuato fin dalle ultime luci del tramonto lungo le stradine del centro festoso e addobbato. Fili metallici, come preziose ragnatele, tenevano issate miriadi di lampadine colorate, in un reticolo di ghirigori e di fiori che respiravano quasi fossero animati da pollini di magia. Mani laboriose si intrecciavano ad accenti stranieri, sistemando con invidiabile precisione geometrica bracciali e collane su traballanti bancarelle di plastica.
Un alito di vento solleticò i profili eleganti della piazza e un palloncino variopinto sfuggì al laccio di cotone tenuto dalle mani di un bambino.
Fu in quel momento che mi sembrò di scorgere il tuo profilo altero, le trame del vestito grigio, quello buono, indossato con l’eleganza ruvida degli uomini di altri tempi al matrimonio dei figliocci e dei nipoti. Lo sguardo severo dell’orologio della piazza sembrò sbadigliare e il tempo si riavvolse come una vecchia pellicola in bianco e nero.
La festa patronale, la seconda domenica del mese di luglio, era il luogo della nostra passeggiata. Io ero una bambina, tu un nonno elegante, con la gelatina nei capelli e quel vestito grigio che ti donava un’aria da gran signore. Un intreccio di mani, le nostre. Le tue, callose scolpite dal lavoro di operaio, le mie, piccole, paffute e insicure. Tu mi tenevi forte, avevi paura che io mi perdessi, ma non mi sarei mai mossa dal tuo fianco, la tua ombra sapeva di acqua di colonia e le tue mani custodivano promesse.
La festa patronale ti piaceva. Ma dicevi che bastava andarci una sola volta, la domenica, il giorno della processione e dei fuochi d’artificio, il giorno della nostra passeggiata. Tu avresti comprato la tua busta di noccioline, salutato qualche parente lontano perso di vista, con il quale avresti parlato di innesti e di diritti negati agli operai brindisini; poi avresti comprato qualcosa dalla bancarella che vendeva stoviglie. L’ambulante si agitava come un mostro cattivo e la sua saliva ricadeva sui piatti accatastati con rivoluzionario equilibrio, quasi come una benedizione. Prendeva i piatti, li faceva roteare nelle sue mani da giocoliere e poi li sbatteva sul tavolo di ferro urlando la resistenza della sua porcellana. Uno, due, tre e poi aggiungeva bicchieri e tazze a quella che annunciava come un’offerta imperdibile. Mi faceva paura. Ma tu eri divertito da quei modi di fare e alla fine compravi sempre qualcosa da regalare alla nonna: “Quann’era piccinnu manciammu tutti intra a nu piattu”.
Poi altri sguardi, altri incontri, la musica delle opere famose dei grandi compositori, l’incanto della cassarmonica con la sua cupola di luci a sfidare il cielo e le sue stelle.
L’aria profumava di zucchero e cupeta e i passi scricchiolavano sul tappeto di noccioline lasciate cadere lungo corso Leonardo Leo. La banda suonava trionfale e tu mantenevi la tua promessa, mi regalavi una nuvola di zucchero e un palloncino.
Prima la polvere cadeva al centro di quell’ampolla fatata e al soffio di un vento prodigioso lo stecchino di legno si gonfiava in un dolce sortilegio. I ricordi sono come lo zucchero filato: a volte si sciolgono, ma restano sempre incollati alla pelle.
Poi, in piazza, mi lasciavi scegliere il mio palloncino, dopo aver giurato obbedienza alla mamma e aver promesso di mangiare tutta la frutta dopo ogni pasto.
Era proprio mentre l’aria profumava di acqua di colonia e zucchero a velo che tu prendevi il filo di cotone del palloncino e lo intrecciavi al mio polso, annodando le trame di quella promessa, mentre il cielo sopra di noi esplodeva nella luce di migliaia di lampadine colorate. Palloncino gonfio di speranze e di aria leggera che avrebbe permesso ai sogni di restare attaccati al soffitto della mia stanza per qualche notte.
La festa patronale era il nostro appuntamento, il luogo dove ci saremmo incontrati sotto la luce di migliaia di lampadine, il luogo dove i sogni dei bambini si concretizzano, dove lo zucchero ha il sapore dei ricordi, la musica accarezza gli animi e i palloncini si lasciano sedurre dal cielo carico di stelle.

Foto di Giuseppe Sacchi