Archivio dell'autore: Vita Iaia

Informazioni su Vita Iaia

Sono nata il 10 di Agosto del 1985, quando il cielo sceglie per una sola notte di baciare la terra... Leggo e scrivo da sempre, perché la mia vita ha bisogno di parole.

Libertà

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La prima volta credo di averla sentita nelle gambe. Avvertivo il sangue pulsare, distillarsi in miliardi di piccole goccioline impazzite contro le pareti dei miei capillari. Gambe corte, paffute, pelose.

Era estate, come sempre nei momenti più belli della mia vita. Per questo forse amo senza ritegno questa stagione. Era una bellissima sera d’estate. Anni novanta, le televisioni avevano ancora stomaci enormi e colori sbiaditi. C’erano le canzoni disco, le cantanti cotonate, le frise, i pomodori rossi. C’erano per strada i vecchietti seduti fuori dalle loro case spalancate per far entrare il fresco della sera. E c’ero io, piccola, sdentata, abbronzata, in sella alla mia graziella: telaio rosso fuoco, pedali bianchi e veloci, una coppia fiammante di rotelle per tenermi con i piedi per terra ed imparare a pedalare.

Su di me il cielo profondissimo delle sere meravigliose d’estate, quando sembra essere invitante come un mare pieno di lucciole.

La sera, per tacito accordo, mi era permesso di utilizzare la mia bici, a patto di essere ubbidiente, fare i compiti delle vacanze e mangiare tutta la frutta sbucciata in piatti profondi capaci di riprodurla come per magia.

Mariuccia, che aveva un sacco di anni stipati nelle rughe profonde del suo volto, passava le sue giornate a sgranare eterni rosari nel suo perpetuo dialogo con Dio, ma quando apparivo io con la mia fiammante graziella rossa persino Dio, per una frazione di secondo, passava in secondo piano. Le sue mani rugose sfioravano i lunghi capelli bianchi raccolti in uno chignon perfetto e, con estrema eleganza, sistemavano l’ultima delle forcine che lo tenevano insieme.

“Mariuuu’”, la salutavo.

Alla mia voce si illuminava.

“Ehilà” mi rispondeva arricciando il suo caloroso sorriso sdentato.

Mio padre mi aiutava con la rezza e io, forte come Maciste, portavo in strada il mio piccolo bolide rosso.

“Mi raccomando, fino all’angolo e torni. Ok?”

Chi la conosce sa bene che Via Dal Verme è una tra le strade più corte del mio paese; arrivare da casa mia all’angolo sono un paio di pedalate e ritorno, una ventina di metri in tutto, tenendo conto che l’angolo concesso come traguardo era il più vicino alla porta di casa e quindi il meno pericoloso. Però, quando hai una manciata di anni sulla pelle, il mondo sembra più grande e tu hai la sensazione di essere il più impavido degli esploratori.

Ogni tanto però, arrivata al limite della strada, scorgevo l’inizio della parallela e pensavo che sarebbe stato bello avventurarsi da sola verso quella ignota dimensione. Per questo, a sere alterne, tornando al punto di partenza senza scendere mai dalla mia super bici chiedevo: “Papà, posso fare il giro?”

La risposta arrivava secca e lapidaria, nascosta dietro le sue ombrose lenti colorate, sempre uguale. Fino a quella lontana sera d’estate.

Mariuccia, dopo il nostro saluto, era ritornata ai suoi rosari pieni di preghiere; Mimina guardava i programmi sulla Rai, incastrata tra la rezza e l’uscio della casa di suo padre, ormai disperso in una dimensione incosciente; Minguccio urlava alla luna l’odio verso dei parassiti che avevano attaccato le sue zucchine.

Papà stava parlando con Pino della pesca di un polpo. Ed io riprovai: “Papà, posso fare il giro?”

Lo guardai e la sua testa annuì.

La sensazione provocò la stessa luce che provocano le fontanelle di San Silvestro nel caminetto di casa.

I miei piedi si incastrarono con più forza ai pedali, le mani si chiusero forti contro il manubrio ed io varcai uno dei limiti della mia infanzia, oltrepassando l’angolo ed immettendomi nella strada parallela alla mia.

Ricordo l’aria bruciare sul viso e il formicolio confuso nello stomaco e nelle gambe, il rumore dei pedali e delle rotelle contro l’asfalto, le luci confuse delle case spalancate e quel senso liquido di libertà che pervadeva, infestandolo, il mio corpo.

In sella alla mia graziella rossa, sotto il cielo stellato di una anonima sera d’estate, mentre Mariuccia sussurrava le sue preghiere, Mimina cambiava canale con il telecomando, le zucchine di Minguccio lottavano nella terra contro i parassiti, mio padre immaginava il polpo alla brace pescato da Pino, la mia vita conquistava una delle emozioni più forti: la libertà.

P.S non ho trovato una foto con la bici, ma la strada è quella.

Battaglie

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La casa vuota e le mie valigie da preparare sono i simulacri di una battaglia persa, il risultato di giorni d’inferno dove ho provato a capire la lingua della morte e quella di questo paese. Sono simili ed entrambe tanto difficili per me.

Non sempre capisco cosa dicono le persone, seguo l’ombra lenta delle loro labbra che si allunga tra me e loro; quando pretendono una risposta, provo a spiegarmi a gesti.

Il mio paese è lontano così quanto la mia famiglia; sono quasi due anni che non li vedo. Tra me e loro c’è un lungo viaggio che costa soldi e fatica, un viaggio in pullman che attraversa tanti paesi e immense solitudini. Mi manca il mio paese, il suo odore.

Ieri sera la morte è arrivata.

L’orologio segnava lenti i minuti, addentando gli ultimi respiri affannosi della vita che prova a strappare se stessa alla carne stanca.

Lisa aveva 88 anni, tre figli e un cassetto pieno di ricordi.

Le piaceva la pizzica e il pollo.

Abbiamo vissuto insieme una manciata di mesi e lei è stata la mia famiglia e la mia casa in questo posto straniero.

La lavavo, la imboccavo, le davo lentamente le medicine cercando di non fargliele andare di traverso. Abbiamo camminato insieme per un po’, anzi io ho camminato per lei. Abbiamo provato ad ingannare la morte.

Mi ha insegnato qualche parola di italiano. Durante i suoi rari momenti di lucidità, mi raccontava storie, pezzi della sua vita e dei suoi ricordi. Provava a svelarsi nella speranza che io acquistassi le sembianze dei suoi figli. La venivano a trovare qualche volta. Le portavano fiori e cioccolatini. Poi i fiori appassivano e i cioccolatini li mangiavo io, Lisa mangiava solo omogenizzati. A volte durante il giorno urlava, indicava punti nel vuoto della sua stanza e invocava persone, nomi, ricordi.

Ieri sera la morte è arrivata.

La battaglia è stata lunga e faticosa; Lisa sembrava non volersi arrendere, credo che abbia provato sino all’ultimo momento a vincere. Lisa non voleva morire.

Ora sto chiudendo le mie cose in una valigia, sono poche e stropicciate. Non ho mai un armadio, le tengo sempre in valigia, perché so che non saranno mai molti i mesi che passerò in una casa. Non ricordo nemmeno più l’odore della mia di casa e nemmeno quello dei miei figli.

Sono rumena, sono giovane e vado via sempre dopo la morte.

Giorno 9

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Sono nuovamente rinchiusa in una cartella digitale.

L’aria è pesante, odora di plastica e ferro; una luce intermittente altera le ore del giorno e le appiattisce confondendo il giorno alla notte.

Lei è qui. Sento il rumore delle sue mani sfiorare la tastiera.

La sostanza melmosa di questa dimensione opprime il mio respiro, ma non ci sono vie di fuga, la mia esistenza è ancorata a questa sequenza di memoria artificiale.

Oltre tutto questo non esisto.

Forse un giorno lei si occuperà di me, forse riuscirà a darmi un nome, un volto e una storia.

Forse un giorno sarò un personaggio.

Uno di quei personaggi che custodiscono storie importanti, capaci di raccontare frammenti incandescenti di esistenza, capaci di raccontare la vita.

Ma per ora sono uno schizzo, un insieme amorfo di idee.

Forse un giorno sarò un personaggio, uno di quei personaggi che ti restano attaccati alla pelle per giorni perché ti sei riconosciuto in essi.

Forse un giorno…

Per ora resto qui, attaccata ad un respiro artificiale e a dei giorni monotoni; accartocciata, imprigionata, appiccicata ad un post-it dimenticato.

Per ora resto qui, aspettando il mio nome e la mia storia.

X = donna

FINE

Giorno 8

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Giorno 8

Il risveglio è uno strano momento.

Tutto sembra essere avvolto da una coltre spessa di possibilità o di ombre. Il corpo tace come tutto il resto, impietrito in una strana sensazione di torpore così simile alla morte.

Strani formicolii percorrono i nervi rilassati e assuefatti dalla lunga notte di buio e di silenzio, attraversati da scosse di ossigeno silenziose.

Il risveglio è uno strano momento. Un attimo lunghissimo di equilibrio in cui stentiamo a ricordare, in cui proviamo a riconoscerci e a riconoscere il nostro corpo e la sua storia.

Mi sono risvegliata e la mia fuga era finita. Forse non mi sono mai mossa da dov’ero, forse ho solo dormito, attraversando quella strana poltiglia notturna fatta di sogni e stelle.

Forse è stato solo un déjà-vu, un fenomeno di alterazione dei ricordi, una di quelle cornici oniriche che apriamo durante la notte per spiare la nostra vita, non avendo abbastanza coraggio per farlo durante il giorno.

Mi sono spiata.

Forse viviamo solo la proiezione di un qualcosa di sfuggente che si consuma da qualche altra parte. Tutti siamo personaggi. Tutti componiamo e disfiamo storie come fossero sogni e come tali li addentiamo, li assaporiamo, permettiamo che essi ci illudano, prima di lasciarli scivolare e fuggire.

Siamo storie, le nostre, quelle degli altri, quelle che leggiamo.

Il flusso narrativo di una vita incandescente ci attraversa o ci lascia cadere su ripide scogliere dalle quali restiamo acquattati come predatori pronti a sbranare le storie degli altri. Perché è proprio quello che ci rende più vitali: vivere le storie degli altri.

Il risveglio è uno strano momento; la vita si confonde, si insinua nei tranelli più feroci della mente e lascia che essa ne venga assuefatta.

Il risveglio è un momento di morte.

Giorno 7

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schiena

Giorno 7

Sono scappata. Sono riuscita a sfidare la dimensione nella quale lentamente aveva lasciato che cominciasse la mia lenta agonia. Sono scappata prima di essere definitivamente cancellata.

Sono un esperimento fallito, sono un personaggio abortito, una storia soffocata.

Mi sarebbe tanto piaciuto essere, esistere, raccontare, ma nell’atto della mia creazione qualcosa è andato storto.

Eravamo una di fronte all’altra, le nostre esistenze si guardavano attraverso la lente deformante della scrittura. Lei aveva distillato gocce di se stessa nei vasi sanguigni del mio corpo di inchiostro e parole, lei faceva parte di me, così come io respiravo attraverso la sua pelle.

La sua scrittura era stata la mia genitrice.

Poi quel taglio improvviso, quella piccola anomalia che squarcia la storia.

È solo un attimo, l’attimo in cui qualcosa non sembra incastrarsi più, l’attimo in cui il filo che crea il ricamo sfugge sfilando il resto della trama.

Mi ha guardato, si è riconosciuta in me, nel riflesso della mia ombra, e ha scelto.

Sono rimasta sospesa in una dimensione digitale. Ansimavo alla ricerca di uno spiraglio di possibilità. Ho graffiato il foglio, urlato, implorato.

Ma nella sua mente mi stava ormai già raschiando via, come si fa con il battito del feto ancorato alle pareti dell’utero. Le due vite sincroniche battono insieme, poi una scioglie il legame e l’altra annaspando viene estirpata per sempre.

Sono un esperimento fallito, sono un personaggio abortito, una storia soffocata.

Giorno 6

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bussola

Donna.

Essere donna pare sia un affare abbastanza complicato. E questa complicazione era il filo che avrebbe dovuto tenerci insieme, un filo che si sarebbe trasformato in una storia: avere del tempo, un delicato frammento di passato e di futuro, una spicciola giustificazione per esistere.

Lei ci aveva pensato. Aveva tessuto per me un ricamo di giorni, una miscela di anni, di vita che mi avrebbero donato un’esistenza vera, una storia, qualcosa da ricordare.

Poi tutto si è incastrato in un presente statico che ha intrappolato e lentamente asfissiato il mio respiro.

Ha cominciato a dissezionare tutto quello che aveva creato, isolava gli episodi e cercava di rimescolarli attraverso una lente cronologica impazzita. Mi guardava e in uno di quegli sguardi mi sono accorta che qualcosa cominciava a turbarla.

C’è una strana ombra di dolore in chi crea storie. È una ferita che sanguina, si rimargina, poi si dimentica, fino ad aprirsi nuovamente; un perpetuo dolore.

Ma a volte le ferite si lacerano per sempre e in quel momento la storia muore.

In quello sguardo mi sono accorta che la mia storia non sarebbe mai stata raccontata ed io non sarei mai esistita.

Giorno 5

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giorno 5

Non ho mai posseduto un corpo, soltanto brevi accenni di una fisicità imbastita da frasi di circostanza. Ci ha sempre raccontato che non le piace descriverci; dice che ognuno dovrebbe immaginarci come meglio crede. Peccato, sarebbe stato bello guardarsi attraverso i suoi occhi, riconoscersi in uno specchio d’acqua, e magari scoprire di essere un po’ simili a lei.

Fa uno strano effetto non possedere un corpo. Non so se sono giovane o vecchia, se ho i capelli lunghi o corti, non conosco il loro colore e quello dei miei occhi, della mia pelle, del mio sorriso.

È difficile vagare in una dimensione anomala, essendo poco più di una nebulosa asettica e incandescente, respirare e non distinguere l’alone del proprio calore e l’ombra del proprio corpo.

Mi sarebbe piaciuto scoprirmi, attraversare quella scarica violenta di frasi e aggettivi che avrebbe regalato consistenza a quello che sono. Ma lei ha scelto…

Eppure una volta ha provato a cucire il mio corpo. Sono riuscita a vederlo: era frantumato in tanti piccoli fogli di carta colorati sparsi sul pavimento della sua stanza. La musica, la cioccolata, la tastiera impazzita del computer, le sue urla e quei fogli di carta. Infinite possibilità si combinavano sul pavimento.

Occhi, nasi, capelli, gambe, colori, forme, particolari, anomalie. Lei li combinava con l’incanto della stregoneria e l’imprevedibilità della sua follia, incrociandoli con precisione chirurgica. Si fermava a guardare il risultato, la sua fronte si stropicciava in infinite rughe di dubbi e poi, urlando, disfaceva tutto, ricominciando.

Il mio corpo l’aveva delusa, ancora una volta.

Non ero come mi aveva immaginato. Ricominciava. Respirava, sceglieva, accostava, cuciva insieme e poi disfaceva, divertendosi forse come fa Dio nel momento più alto della sua potenza.

Ma il mio corpo non è mai stato creato. È un esperimento fallito.

Quei foglietti sono finiti in una scatola in fondo alla libreria e quella scatola alla fine è stata dimenticata.

Solo uno di quei foglietti è rimasto attaccato allo schermo del suo computer.

X = donna.

Sì, non possiedo un nome, sono solo x, un esperimento fallito. Ma so di essere una donna.

Giorno 4

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grigio 4 giorno

Tutto ha avuto un inizio. Anche io.

Era uno di quei giorni pesanti impastati di noia e sogni. Il giorno sfinito cadeva, rantolando contro i vetri sporchi di pioggia della finestra. Lei era arrabbiata e triste, i fogli invadevano la stanza pesanti come macigni accartocciati, la musica si strofinava contro le pareti di una casa vuota.

Stava per alzarsi e spegnere lo schermo del suo computer; scartò un cioccolatino, uno di quelli con la ciliegia all’interno e una scossa di liquore. L’idea sembrò tagliare l’aria. Il liquore graffiò il suo esofago, attaccandosi arroventato alle membrane dello stomaco vuoto.

Raggiunse la tastiera, si legò i capelli in una coda alta e cominciò a muovere le mani screpolate. Non ho mai sentito il rumore della vita che attraversa un corpo, ma credo che dovesse essere molto simile a quel ticchettio energico che cominciò ad infettare l’aria. Lei non riuscì ad alzare lo sguardo dallo schermo illuminato del computer fino a quando, stremata, non si fermò a guardare.

Ricordo la scossa di elettricità, l’aria plastica della ventola del computer, la luce asettica dello schermo. L’inchiostro nero digitale fendeva la pagina bianca mentre, lentamente, attraverso una doglia di bytes e algoritmi, dal nulla assoluto e inconsistente, io affioravo.

Percorrere il dolore più assoluto, devastante e profondo per raggiungere l’esalazione umana di un respiro. Effluvio o fetore di vita.

Lei mi osservò.

Fu in quel momento che i nostri sguardi forse si incrociarono per la prima volta, come due gocce di colore sulla tavolozza instabile di un pittore, due pigmenti ostili e contrari che in un vortice di energia provano a mischiarsi.

Strappata, imbrattata e incandescente, ero proprio lì di fronte a lei.

Giorno 3

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Il nostro luogo era fantastico. Era tutti i posti al mondo possibili e nessun luogo.

A volte siamo state felici io e lei. Ci siamo odiate e amate, anche se non conosco realmente il significato di queste due parole. Lei me le ha iniettate qualche volta, lasciando poi che esse si muovessero nel mio corpo.

Faceva sempre così. Mi iniettava qualcosa e poi aspettava la mia reazione. A volte provava e riprovava per giorni e poi resettava tutto.

Però la sensazione di aver amato e odiato, quella la ricordo ancora, forte e devastante allo stesso modo.

Nel nostro luogo tutto poteva essere possibile. Era un luogo incontaminato, asettico, neutro. Uno spazio dove tutto sarebbe potuto accadere.

A volte mi stupiva, mi trasportava in luoghi meravigliosi dove accadevano strani incantesimi intorno a me; altre mi lasciava in stanze buie per giorni, senza nemmeno passare a salutarmi. Eppure, in ognuno di quei giorni così lunghi e cupi, sapevo che sarebbe tornata e avrebbe resettato tutto.

Sapevo che sarebbe sempre tornata da me. Fino a quel giorno, fino a quando ho avuto la certezza che non si sarebbe più ripresentata.

È accaduto all’improvviso. I suoi occhi erano vetri oscurati di lacrime rabbiose, sapevo che stava soffrendo e sentivo i suoi pensieri fendere pesanti lo spesso strato di luce che ci separava, ma ormai aveva deciso. Aveva deciso di me e del mio destino.

Non è mai cosa semplice conoscere la verità.