Cronache di un Natale di Provincia: un uomo, la sua donna e un carrello

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uomo-1Alberi ubriachi di addobbi natalizi, balconi sfavillanti stile Las Vegas, gare di vicinato combattute con folclore fino all’ultima lampadina utile attorcigliata al pezzo di intonaco più estremo.
Ebbene sì, per chi ancora non se ne fosse accorto, siamo ufficialmente in piena atmosfera natalizia.
Quel periodo dell’anno durante il quale l’adrenalina nascosta nel corpo trova valvole di sfogo per inondare la nostra vita tra cene lunghissime e gare di resistenza nell’aria asfissiante dei centri commerciali. Perché il periodo natalizio, ormai si sa, è una dura lotta di resistenza, una lotta di muscoli e nervi tenuti in tensione fino alla notte della vigilia.
Ed io, dopo ghirlande di parole dedicate all’universo femminile, per una volta, proverò a raccontarvi il mondo formato testosterone.
Ma vi siete mai fermati per un attimo a scrutare i volti martoriati degli uomini in questo periodo? Sono scomposizioni cubiste del miglior Picasso, rifacimenti dell’opera più importante di Piero Manzoni, avanguardie psichedeliche di prospettive artistiche.
Tutti in questo periodo cediamo al richiamo consumistico da ipermercato, tutti scendiamo a compromessi con lo spirito da portafoglio del Natale e tutti avvinghiamo quel carrello riempiendolo prima di aspettative e poi di inutili fiocchi colorati. Ed entrati nella bolgia di gente, tredicesime e sudore in movimento trovi loro: gli uomini. Li trovi bivaccati sulle panchine con lo sguardo perso nell’infinito intenti a fissare un punto lontano, li trovi appesi ai carrelli, privi di coscienza, vigilando come attenti cani da guardia, mentre le care mogliettine si perdono negli infiniti scaffali stracarichi di merce. Loro sono lì, soli, silenziosi, sconfitti da quel dovere coniugale che sicuramente il prete avrà letto in quella serie di articoli di quel lontano ormai passato giorno di festa, nel quale non avranno sposato solo una moglie ma anche una mina consumistica pronta ad esplodere.
Non amano i negozi, non amano la confusione, non sanno distinguere la differenza che esiste tra una maglietta malva e una viola, per loro è lo stesso colore, non sanno che il cotone può avere varie percentuali di elastan, vivono benissimo anche senza, EPPURE sono lì. Immobili, pronti ad intervenire in caso di bancarotta, fedeli a quel senso di appartenenza coniugale. Mentre il divano reclamava affetto, gli amici una birra e il cane una passeggiata.
E noi? Facciamo finta di non sentire, non ce ne frega niente della loro birretta, dei loro amici e del cane. Mentre loro aspettano attaccati ai carrelli, pronti a darci ragione, pronti ad assistere alla scelta del prossimo regalo… mentre il Natale incede…

Continua…

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Scorci di un microcosmo di provincia: la palestra!

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Sui campi di battaglia, si sa, prima o poi è necessario firmare un trattato di pace.
Finalmente io e i miei strati adiposi ci siamo riusciti e, dato scrittura alle nostre ultime volontà, abbiamo firmato un accordo e ci siamo iscritti in palestra.
Una catastrofe!
Ma voi ci pensate? Passare dal calduccio del plaid, dalla compagnia di un buon libro aromatizzato dal profumo di una tazza di tè (con biscottini assortiti alla cioccolata di contorno) al freddo clima da obitorio di una palestra.
Non è l’accordo di un trattato di pace: è letteralmente la fine! Un’avventura, una discesa dantesca agli inferi, un inverno sulle cime tempestose della tenuta di Heathcliff non sono nulla al confronto della mia entrata in quel luogo di tortura disumano.
Luce al neon, aria tropicale, affollamento da mega offerta speciale di biscotti al cioccolato e poi lui, il tuo istruttore, che con passo plastico dovuto alla gommosità irreale dei suoi muscoli si avvicina per darti il benvenuto.
“Ciao! Sono contento che ti sia iscritta in palestra. Cominciamo subito!”
Allora, caro amico gommoso, mettiamo subito le cose in chiaro: apparteniamo a due galassie destinate a non incontrarsi mai. Io nella mia vita ho frequentato solo gente simpatica: gelatai, pizzaioli, pasticceri e soprattutto salumieri. Perché il mio mondo, caro amico, è fatto di cioccolata, pizze, gelati, panini strabordanti di affettati. Sai, è un mondo felice. Il tuo… Beh, diciamo è un po’ asettico, plastico, faticoso.
Ma va bene, io ho firmato un trattato di resa e stasera sono qui davanti a te, gommoso amico, pronta a capirti, ascoltarti, assecondarti.
“Allora su cosa dobbiamo lavorare? Qual è il tuo problemino?”
Ecco, due galassie.
Per me, caro amico gommoso, non è stato semplice venire qui, abbandonare il mio divanetto, il vasetto di cioccolata e le mie amiche calorie. Sono anni che non metto un piede in palestra e potrebbero diventare secoli, se tu, Al Capone del bicipite, mi accogli così. I miei non sono problemini, sono scelte di vita e poi, se proprio lo vuoi sapere, mi ero affezionata ai miei chili di troppo ed era diventato difficile dir loro addio. Non c’era bisogno di sottolineare!
Mi faccio forza e confesso le mie colpe. Lui mi guarda e mi dice:
“Tranquilla, avremo tanto da lavorare, ma ci riusciremo. Certo, devi cominciare a bruciare…”
E certo, perché sembra facile a lui gommoso uomo da palestra usare il verbo bruciare. Secondo te se io fossi stata capace di bruciare le mie calorie sarei venuta da te, uomo di un’altra galassia, a chiedere aiuto? Faccio un respiro e lo seguo.
Aria caraibica, l’intera squadra di Baywatch in serie attaccata alle attrezzature intenta ad allenare chilometri di muscoli in trazione. Facce corrucciate, serie, impegnate in quell’attività che appare come una questione di vitale importanza. Provo a sorridere a qualcuno di loro, sfodero la mia faccina simpatica, sussurro anche qualche timido “ciao”. Mi guardano, sono stupiti, si accorgono che i miei muscoli, forse, dormono sotto qualche strato in più di grasso, riconoscono in me una specie a loro sconosciuta, sono il nemico. Mi puntano! Non rispondono ai miei saluti e i loro bicipiti accennano una rivolta.
Sono impaurita, guardo il mio amico gommoso e mi fa segno di salire, devo cominciare a riscaldarmi.
Accende il tapis roulant.
La catastrofe ha inizio!
Continua…

Quando i libri profumano di carta e ricordi

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A volte i ricordi sono impastati di colori, profumi o di pagine.
Ricordate il primo libro che è stato veramente vostro? Lo custodite in una parte importante della vostra biblioteca? E ogni tanto lo sfogliate per sentirne l’odore che ha la fragranza dell’infanzia?
Beh, io il mio primo libro lo conservo gelosamente e ogni tanto torno a rileggere le sue pagine fatte di parole e ricordi.
Un viaggio indimenticabile di Penelope Lively. Titolo premonitore, forse, per l’inizio di quel viaggio nel mondo della letteratura che ancora oggi, a distanza di anni e di tante esperienze vissute, risulta ancora davvero indimenticabile.
I ricordi, si sa, sono scintille preziose di passato, ma ricordo ancora quel sabato pomeriggio con papà che, senza sprecare tante parole come suo solito, mi accompagnò per la prima volta in libreria. Avevo imparato a leggere da qualche mese e con non poca fatica, avevo scoperto che c’era una strana sensazione di benessere nel leggere quei piccoli frammenti di storie sul mio sussidiario. Presi coraggio, quel coraggio che non ho mai avuto per chiedere ai miei genitori delle cose. Feci un bel respiro e chiesi a papà: “Potresti comprarmi un libro?”
“Sciamu”, fu la sua risposta. Secca. Immediata, quasi come se la stesse aspettando da sempre.
Ricordo ancora l’odore dei libri e l’accattivante colore delle loro copertine. Papà uscì a fumare la sua sigaretta e mi aspettò. Vagavo tra quelle storie e le sentivo sussurrarmi strane melodie, poi in fondo allo scaffale vidi questa copertina. Era colorata e c’erano questi due bambini che si tenevano per mano in questo paesaggio di colline. Un viaggio indimenticabile: il titolo mi stregò. Papà pagò il mio libro e mi disse:
“Se lo finisci, sabato prossimo ne compriamo un altro”.
Cominciammo a comprare libri ogni sabato. Lui fumava la sua sigaretta e io sceglievo i miei libri. Titolo dopo titolo, autore dopo autore, storia dopo storia, la mia piccola libreria casalinga cominciò a crescere, così come i piccoli fantasmi che mi facevano compagnia nei silenziosi pomeriggi d’estate. La casa dormiva insieme ai suoi abitanti. Io prendevo i miei libri, mi rintanavo nella mia stanza e cominciavo a dissezionarli.
Una sera papà mi chiamò nella mia stanza. Mi aveva costruito una libreria in legno:
“Così avremo uno spazio dove mettere i tuoi libri”

Sono i ricordi che ci lasciano vivere e abbiamo bisogno di storie per custodirli.
Buon #SocialBookDay a tutti!!!

Non abbiamo nessuna stanza tutta per noi

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“…la prosaica conclusione – che per poter scrivere romanzi o poesie servono cinquecento sterline l’anno e una stanza con una serratura alla porta…”

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé.

Ho subito pensato a lei quando ieri mi sono imbattuta nell’ennesimo articolo che sottolineava la mancanza delle donne nella rosa dei premi letterari più prestigiosi o nella massiva produzione di romanzi. Ci ricordavano ancora una volta che scriviamo troppo poco e che la letteratura, nel ventunesimo secolo, è ancora un mondo prettamente maschile. Forse questo potrebbe cambiare se almeno tutti ci impegnassimo almeno un po’ a smetterla di ghettizzare la produzione letteraria firmata da donne come “letteratura femminile”. Usiamo la stessa materia umana, gli stessi sentimenti, lo stesso codice comunicativo, quindi sinceramente non vedo nessuna differenza.
Povera Virginia, il suo saggio ancora oggi passa inosservato e soprattutto, cosa ancora più grave, non siamo riuscite nonostante anni di lotta ad ottenere le nostre cinquecento sterline e la nostra stanza chiusa da una serratura per cercare di aprire il nostro universo, che vi assicuro è meraviglioso.
Vediamo un po’, io ci ho provato a scrivere una storia, una storia che parlasse delle donne e che le celebrasse nella loro forza e nel loro coraggio. Nessuno dei grandi editori si è degnato di inviarmi una lettera o una mail nella quale fossero spiegati i motivi di una mancata pubblicazione. Non avrei preteso di ricevere chissà quali complimenti, lo so che gli esordienti e le donne non posso avere voce in capitolo, ma avrei tanto voluto, da questi signori che sottolineano la mancanza delle donne in letteratura, alcuni consigli per crescere e migliorare.
Io una stanza tutta per me non ce l’ho; quella nella quale dormo sulla carta non è nemmeno mia. Cari signori che parlate di letteratura femminile, qui la battaglia è ancora dura, qui la situazione è davvero grave, siamo in trincea. Pensate, se tra qualche mese io scegliessi di ascoltare i consigli del mio ministro alla salute, una donna, che mi ricorda che la fertilità potrebbe essere già compromessa dalla mia età biologica e scegliessi di fare un figlio, non soltanto non avrei una stanza tutta per me, ma verrebbero meno anche le cinquecento sterline che riesco a mettere insieme con uno stupido lavoro part-time.
Siamo donne e siamo arrabbiate. Non continuate a provocarci stupidi sfoghi ormonali. Aiutateci a scrivere e a pubblicare, credendo nel nostro talento e non nel bonifico che siamo obbligati a fare per pubblicare, per vedere realizzato un sogno a pagamento. Abbiamo tante cose da raccontare, non abbiate paura, prima o poi saremo tante, ci serve solo quella stanza e quelle maledette cinquecento sterline.

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E Ferragosto fu!

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E Ferragosto made in sud fu! Con le sue teglie di lasagne, le angurie ghiacciate, i suoi “vestimenti leggeri”. Se sei nato e cresciuto al Sud, Ferragosto ti fa pensare immediatamente ad una tenda da montare alle prime luci dell’alba, quando persino il sole deve ancora sgranchire i suoi raggi, quando l’acqua del mare porta ancora sul volto il velo sottile della frescura notturna. Ma bisogna essere caparbi e lungimiranti per accaparrarsi quel posto in prima fila, quell’angolo di mondo e di spiaggia per rendere omaggio dignitosamente al Ferragosto.

Festa pagana o festa religiosa, diciamoci la verità, poco importa davanti alla nostra teglia di riso, patate e cozze, dinanzi alla sperlunga di affettati misti. Il cibo unisce, il cibo crea legami, il cibo rende felici. E non sbalordirti, caro lettore settentrionale, se nei parchi adiacenti ai siti turistici trovi le famiglie del sud intente a ridere e urlare consumando il pranzo ferragostano. Non ti sorprendere se da casa siamo riusciti a portare tovaglie, ombrelloni, verandine improvvisate, barbecue e ogni tipo di suppellettile. Tutto può tornarci utile durante il nostro accampamento. Non ci scrutare in modo sospetto se usiamo in questo modo un po’ paesano il nostro patrimonio. Siamo assuefatti da tutta questa bellezza, che rischiamo alla fine di non riconoscere e valorizzare nemmeno più. Ma stai tranquillo, la serbiamo in fondo al cuore da qualche parte e ne siamo orgogliosi, forse.

Ora vi chiederete come ho trascorso io il Ferragosto. Vi dico la verità, ho vissuto un’esperienza meravigliosa. Sono scesa attraverso le membra calcaree della mia adorata terra per scrutarla dalla profondità del suo essere bellezza.

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Gita alle Grotte di Castellana. Gita tra i meandri della roccia che con la pazienza di tutti i suoi millenni dà vita all’amore. L’amore che c’è tra due goccioline d’acqua che lentamente costruiscono un monumento fatto di roccia e che forse un giorno si incontreranno, si baceranno e salderanno il loro legame per sempre. La traccia di quell’incontro che crea stupore e scolpisce il ventre gravido della mia terra. La traccia di un amore, la pazienza di una promessa eterna.

Un’esperienza che consiglio con tutto il cuore, mio caro lettore, un’esperienza che ti spinge a riflettere sulla nostra piccola goccia d’esistenza che non ha molto tempo per diventare un monumento naturale e magnifico.

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SALSA! SALSA! SALSA!

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Salsa!!! Salsa!!! Salsa!!!
Cari lettori, vi informo subito che non mi riferisco a quel genere di danza dai ritmi caraibici, ballata con succinti costumini colorati da ancheggianti e prosperose signorine. Scrivo dal Sud, dal mio meraviglioso microcosmo di provincia, e qui quando si parla di salsa non ci possono essere equivoci: la salsa è una sola e ci si riferisce alla conserva di pomodoro. Tra Luglio e Agosto non ci sono ricorrenze o calamità naturali che possano bloccare o rinviare questa antica tradizione familiare: si deve “fare la salsa”!!!
Da brave formichine laboriose, le donne del sud, durante la lunga e calda estate, preparano le loro scorte invernali: melanzane sott’olio, fichi secchi, pomodori pelati e lei, la regina di tutte le dispense che si rispettino, LA SALSA. Aspetto invitante, colorito rosso pomodoro, polpa profumata di terra, la nostra, ricca di sali minerali, sexy da far paura e da far accapponare gli amidi al più restio degli spaghetti.
Tutto comincia dalla ricerca disperata della materia prima. I più fortunati hanno ancora un nonno o un parente prossimo che si dedica anima e corpo alla coltivazione del pregiatissimo “oro rosso”. Tutti gli altri (categoria alla quale appartiene mia madre), a partire dalla metà di Giugno, cominciano la ricerca del coltivatore diretto da cui acquistare l’indispensabile materia prima.
Poi inizia il divertimento.
Ma andiamo per ordine:

Fase numero 1: Si levano gli odiosi “Puddicini”. Questo significa passare un intero pomeriggio con mamma, nonna e vicine volontarie, a compilare l’aggiornamento annuale delle corna paesane. È qui che si scopre il vero gossip, è qui che nascono le confidenze più personali. Tra un puddicino e l’altro.

Fase Numero 2: Preparazione dei vasetti.

Fase Numero 3: Ore 4,00 del mattino. Suono della sveglia.
Colazione veloce, bisogna agire in fretta prima che il sole sia alto e le mosche decidano di fare baldoria. Bisogna raggiungere il luogo nel quale il rito si compirà e cominciare a lavare i pomodori. Tre bagnetti in tre tine differenti. Devi essere veloce, scaltro e fottutamente forte.

Fase Numero 4: Cottura dei pomodori. Cottura lenta. 40 gradi all’ombra. Punti neri impazziti. Trattamento estetico gratuito offerto dalla padrona di casa. E che te ne fai del vapore dell’estetista! Qui si comunica direttamente con l’inferno in via preferenziale, il vapore è quello buono.

Fase Numero 5: Spremitura dei pomodori e successivo imbottigliamento.

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Ora tutto vi sembrerà un divertentissimo passatempo estivo. E invece no, miei cari lettori. È una commedia all’italiana. Fare la salsa è come una penitenza, una prova alla Ulisse, un rituale di iniziazione al matrimonio. Perché, ogni anno, tutti, la nonna, la zia, la mamma, da quando avevo sei anni, mi ripetono la stessa frase obbligandomi a partecipare al rito:
“T’ata ‘mparai, perceni ci no a maritata ce ‘nciata fa manciai? La salsa cattata?”.
Sfruttamento psicologico della manodopera legalizzato. È così che le bambine vengono iniziate alla preparazione della salsa. Si comincia con un cucchiaino. O, almeno, io ho cominciato così, da quel cucchiaino che il nonno mi faceva usare per spingere la salsa in uscita dalla macchina verso la vasca. Le sue mani e le mie. I ricordi. I suoi sorrisi. Le sue scarpe di plastica marrone e i suoi occhiolini quando giocava a prendere in giro tutte le donne, impazzite intorno alle tine piene di palline rosse. Per loro avremmo dovuto tenerci a distanza per non far cadere nulla nella salsa, allora lui cominciava a ballare con il suo sorriso e così scatenava la baraonda generale. Venivamo cacciati via. Ma questo per me significava la merenda e per lui la sua sigaretta.
Fare la salsa qui, in questo microcosmo di provincia, significa preparare le scorte per l’inverno, ma vuol dire molto di più. Vuol dire parlare durante la lunga preparazione, vuol dire conoscersi. È vero, è un rito della nostra tradizione, serve a costruire legami, serve a conservare ricordi, serve a mantenerci autentici.

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Scorci di un microcosmo di provincia: MAMMAMODAMARE2016!

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Eccomi qui, cari lettori, a scrivere ancora di mare e bagnanti. La scorsa settimana abbiamo dato spazio al pranzo della domenica consumato dalle famiglie pugliesi sull’incantevole costa della nostra regione. Ma il mare non ha solo aspetti culinari da indagare. In realtà la spiaggia è un laboratorio antropologico attivo, dove tutto può essere studiato e approfondito.
Per esempio, avete mai riflettuto sulla bellezza da top model della mamma “contemporanea”? Donatella Versace è nulla al confronto dell’esercito delle nuove mammemodamare2016. Come direbbe qualcuno, “le cose sono davvero cambiate”!
Quando io ero bambina (qualche decennio fa) le mamme erano esseri terrestri. Le loro rotondità erano ricoperte da uno strato spesso di crema protettiva 50+, compresse in castigati costumi interi, non proprio all’ultimo grido. Erano presenti e complici nella costruzione dei castelli di sabbia, commensali appagate nei pranzetti fatti di polpette all’alga e minestra di sassolini e conchigliette, sorridevano sempre e non si arrabbiavano quasi mai. Oggi invece le mammemodamare2016 sembrano budini al cacao, luccicanti come pietre preziose nella vetrina del miglior gioielliere parigino. Sono perennemente oleate e i mesi di gestazione non sembrano aver lasciato ricordi sul loro corpo scolpito in palestra durante i mesi di nullafacenza invernale. Creature viscidose nel loro spesso strato di olio abbronzante, che non soltanto provoca l’acceleramento della melanina ma fa brillare la loro abbronzatura perfetta in modo accecante.
Abbronzatura perfetta, sì! Perché loro sono già abbronzate dal 28 Febbraio di ogni anno e la loro spiaggia di fiducia gode di ottimo sole artificiale 365 giorni su 365. Sulla spiaggia si arriva già color marron glacé; assolutamente vietato dalle mammemodamare2016 lo stadio mozzarella fiordilatte. I loro costumi poi, piccoli triangolini di tessuto tenuto insieme da stratosferici sberlocchi costati l’intero stipendio del marito! La collezione moda mare dei vari marchi di grido bisogna possederla in toto e possibilmente prima della mamma vicina di ombrellone, non sia mai! Paillettes, perizoma, push push push up (vive nella loro mente la Pamela Anderson bagnina intramontabile di Baywatch), kaftani, borse e sandalo con zeppa abbinato, ovviamente! Tutto rigorosamente acquistato con i soldi del marito, non sia mai che qui si lotti ancora per l’emancipazione femminile.
Il comportamento della mammamodamare2016 è davvero singolare.
L’altro giorno mentre ero in spiaggia, cercando di trovare ristoro dall’afa estiva leggendo un buon libro (Storia di Anna, Patricia Dao, da consigliare), un piccolo esserino giocava con la sorellina. I bambini so’ pezzi ‘e core, ovviamente, ma sulle pagine del mio amato libro sono arrivate in ordine: noccioli di pesca, acqua da gavettone per sorellina, schizzi di succo di frutta all’albicocca e quintali di sabbia dorata dalle dune del deserto…Tutto questo sotto gli occhi della mammamodamare2016, intenta a controllare prima lo stato del suo rossetto, tranquilli ovviamente waterproof, e poi lo stato del suo profilo Facebook. Non ha detto una parola mentre io venivo sommersa dalle tempeste del Sahara. Non si è spostata di un millimetro dal suo gazebo dorato e ha lasciato che il bambino continuasse a disturbare l’intera spiaggia. Cara mammamodamare2016, ai miei tempi la mia mamma mi avrebbe prima fulminato con lo sguardo, poi si sarebbe alzata e mi avrebbe accompagnato direttamente a chiedere scusa ai vicini di ombrellone, poi mi avrebbe inchiodato all’ombrellone senza diritto di replica. Si sarebbe sporcata le mani di sabbia e avrebbe raccolto i noccioli di pesca, il pacchetto del succo di frutta e tutto il resto.
Ma con un costume così costoso, lo so, tutto diventa più difficile.
Non ti preoccupare cara mammamodamare2016, il mondo va alla deriva ma noi non siamo mai i diretti responsabili!

Continua…

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Scorci di un microcosmo di provincia: Giornata al mare, parte 1.

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mare

Andiamo al mare?
Che sinfonia racchiusa in questa frase semplice ed esplicita.
Il mare, quella distesa infinita di acqua capace di risollevare l’anima facendola volare nei movimenti delle sue maree.
Ma il mare, cari lettori, può essere un’infusione diretta di stress aggrovigliato alla bocca dello stomaco. Per arrivare sulla spiaggia e bagnarsi un po’ bisogna seguire un rituale ben preciso…
Domenica mattina, ore 7,00: trillo della sveglia (se vuoi ottenere un posto in prima fila e ricevere il vento benefico del mare e delle sue onde devi necessariamente anticipare tutti. Per fare questo la sveglia deve essere programmata con tattica militare)

Ore 7,30: indossare bikini. Spalmare crema protettiva, indispensabile per l’esposizione prolungata ai raggi del sole (la domenica serve per abbrustolirsi e sfoggiare una cottura a puntino)

Ore 8,00: preparazione della borsa frigo. Chi ha detto che d’estate bisogna mantenersi leggeri? Qui siamo al sud e in un microcosmo di provincia come il nostro a mare si va con:
– teglia di pasta al forno preparata la sera prima
– parmigiana di melanzane
– burratine
– panini farciti a piacere
– focacce, rigorosamente non integrali
– “muloni”, ovviamente intero e immancabilmente ghiacciato con netto anticipo!
– bottiglione di caffè freddo. Congelato!

Il mare non deve di certo annullare il pranzo della domenica! Qui non si rinuncia a niente.
Nemmeno alla verandina con vista sul mare.

Ore 9,00: arrivo sulla spiaggia e costruzione della verandina!
Renzo Piano non potrà mai capire la maestria degli uomini del sud! Essi sfogano il loro poco amore per il mare nella costruzione di un ricovero per mutilati di guerra (quella matrimoniale ovviamente) con una precisa astuzia.
Materiale per la costruzione: tenda, ombrelloni, tavolino di plastica da pic-nic, teli mare enormi (funzionali alla pennichella pomeridiana), sedia per suocere, possibilmente non funzionante (può sempre tornare utile).

0re 9,30: posizionamento suocera.

ore 9,35: risveglio della spiaggia… Arrivo onda di bagnanti.

Li riconosci subito.Sono carovane di teglie farcite di melanzane, sono compagnie di uomini e donne carichi di zaini, borse, ombrelloni, sedie.  Conquistano la spiaggia e sono pronti a fronteggiare battaglie estenuanti per strappare un centimetro di sabbia al vicino. Urleranno, giocheranno a racchettoni tra il tuo naso e i tuoi piedi, arriveranno nell’acqua a bomba mentre tu, solitario bagnante della domenica, starai ancora meditando la bellezza cristallina del nostro mare. Giocheranno a palla nell’acqua e la palla inevitabilmente arriverà sulla tua testa e tu, al richiamo “pallaaa!”, dovrai nuotare anche se non ne hai voglia, recuperare la palla e sorridere, perché al mare sorridono tutti.
Poi proverai ad abbronzarti e qualcuno ti passerà, senza chiedere, uno spruzzo di acqua solare. Qui siamo generosi e quando spruzziamo lo facciamo per noi, il vicino a destra e il vicino a sinistra e nei giorni di maestrale è inevitabile offrire a tutti.
Ah, ovviamente offriamo anche la parmigiana…
Perché in un microcosmo di provincia una giornata al mare deve essere indimenticabile, proprio come la parmigiana per gli enzimi del tuo stomaco.
CONTINUA...

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Scorci di un microcosmo di provincia: La Festa Patronale

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IMG_20160710_000200Vi siete mai chiesti cosa significa “Festa Patronale” per gli abitanti di un piccolo microcosmo di Provincia???

“Sì, certo!”, starete rispondendo. Luminarie, gelati, bancarelle, zucchero filato con annessa acidità di stomaco e mani incollate fino alla notte di Ferragosto. No, cari amici miei, in un piccolo microcosmo di provincia, dove l’evento più eccezionale é l’ultimo “amico” di una donna sposata, la festa patronale è l’evento dell’anno!!!

Quello che appena terminato ti resta subito l’amaro in bocca e ti chiedi:

“Caspita, e domani il panino dove lo mangio?”

Che poi l’amaro in bocca, si sa, è dovuto all’inalazione da salsiccia abbrustolita, lasciata a macerare sui carboni per indurre in tentazione. Lo sanno tutti: i veri protagonisti della festa sono i Panini: salsiccia, bombette, pezzettini di carne e gnummarieddi. Non vi do la traduzione, perché chi vive nel mio microcosmo di provincia li conosce e per gli altri potrebbe essere una ragione in più per venirci a trovare. La festa Patronale diventa per tutti la giusta occasione di bruciare i grassi, quelli della salsiccia si intende, e allora per tale evento bisogna prepararsi…

Trucco e parrucco studiato ad hoc per le signore in bilico su trampolini improponibili persino a Valeria Marini. Barba e profumo con annesso mocassino e calzino bianco per gli uomini accompagnatori ufficiali, strappati alla comodità del divano da intonacate signore strizzate da panciere medievali nell’abito luccicoso dell’ultimo matrimonio della figlia della cognata della comare. Bisogna brillare, più delle luminarie, più delle luci psichedeliche delle giostre. E allora cascate di sberlocchi e brillantini per onorare i santi patroni.

San Vincenzo e San Vito sono destinati ad una lunga processione tra le vie della città. Si sa, l’Ave Maria scappa tra le corna di Peppino cu Maria, una nascita, nu divorziu e na promessa di matrimoniu, scandite dalla musica della banda. In fondo la festa patronale, per le associate al Club Pomeridiano del Rosario, equivale ad una full immersion, ad un corso di aggiornamento: tre giorni da passare tra chiese, processioni e sfilate serali avendo a disposizione un intero capitale umano da dissezionare. Un’occasione cittadina per vedere tutti, persino i cugini di 100° grado, che nel corso dell’anno si sono riprodotti e moltiplicati come i pesci nel paniere alle nozze di Cana. Mentre il traffico del mio microcosmo di provincia si congestiona, l’aria si inquina, i bambini vengono esposti ad importanti stress emotivi da esposizione eccessiva ai giocattoli e le donne rischiano la vita sui trampoli carichi di pailletes!!!

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Scritti di Notte: Lisbona

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Con molto piacere condiviso sul mio blog il racconto che ieri sera mi sono divertita a scrivere sulle note del Fado, sotto un cielo di stelle e con un bicchiere di Porto, durante la serata di Letti di Notte!!!

Grazie al Presidio del Libro di Veglie per avermi regalato la possibilità di questo viaggio tra le strade e i profumi di Lisbona. Ecco il  racconto….

 

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Aveva sentito da qualche parte, negli ultimi giorni tempestosi della sua vita, il richiamo di quella terra. L’aveva ascoltato durante le ultime violente tempeste che si erano abbattute su di lei, feroci e affamate. Ed ora, arrivando dal mare in quel mattino sbiadito di inizio estate, quando i suoi pensieri si erano confusi alle onde, aveva sentito una donna cantare un intreccio di note e tristezza. I sentimenti si erano increspati, annodandosi come violente correnti marine, profonde, malefiche. Poi il porto si era aperto davanti ai suoi occhi, cangiante e sospettoso.
Al cospetto di quell’abbraccio di piccole gocce di colore traballanti sull’acqua, Isabel aveva sciolto i suoi lunghi capelli neri. Era finalmente sola. Sola e libera. I suoi occhi accarezzarono il profilo femminile di quella città. Lisbona era ai suoi piedi; la città della luce l’accoglieva, dandole il benvenuto. Forse sarebbero stati proprio quei colori a sanare il buio della sua anima. Si sarebbe lasciata sedurre e poi si sarebbe persa in quel gomitolo di strade attorcigliate, avrebbe mangiato i frutti di quella nuova terra e forse avrebbe capito il dolore che era chiuso in un punto lontano della sua anima.
Una voce arrivò dal magma dei ricordi.
Isabel, sono sicuro, un giorno capirai. Capirai la mia scelta e l’amore che provo per te”.
Una donna vestita di nero fece roteare il suo scialle nell’aria, chiudendo il corpo in quell’ombra di tessuto. Poi guardò Isabel:
“Devi fare attenzione, potresti scivolare!!!”
Si sentì protetta, dopo tanto tempo.
Lisbona la ingoiò. Le sue chiese ricamate come drappi nuziali preziosi la incantarono; quelle piccole conchiglie incastrate nella pietra la sedussero e le ricordarono che la bellezza nasce sempre dal pericolo, come le perle.
Aveva voglia di evadere, spostare il suo corpo oltre, scomparire. Così come facevano i tram nelle membra arrotolate di quella città straniera, nella quale aveva trovato un nascondiglio perfetto. Carichi di persone colorate salivano e scendevano in quella monotona carezza di cambiamenti. Scorrevano come capillari carichi di sangue, colmi di ossigeno, pronti ad alimentare un movimento di uomini verso il cuore pulsante di quella capitale. Intanto la sera era scesa e aveva colorato di rosso i profili delle case spennellati di bucati stesi ad asciugare, le ombre si erano impastate alla pietra ed ora sembravano profumare.
Una donna ricamata appena contro la penombra del locale l’accolse con un enorme sorriso spalmato di rosso, porgendole un calice di Porto. L’aria sapeva di salsedine, sudore ed alcol. Le luci accarezzavano i volti dei turisti e l’aria ondeggiava di nostalgia contro le corde di una chitarra.
Accettò il bicchiere per pura cortesia e lo portò con sé al tavolo, cercando di nascondersi tra il chiacchiericcio isterico delle persone che erano nel locale. Sarebbe stata sicuramente meglio se quel nodo aggrappato alla gola fosse caduto nello stomaco spinto dall’alcol e dal profumo fruttato di quel vino. Una compagnia di ragazzi italiani urlava mentre si infilzava di baccalà fritto; un distinto sessantenne affondava la sua lingua tremante oltre le labbra di una bellissima ragazza appena conosciuta, che aveva, però, già consumato la sua voglia d’amore con altri clienti.
Una voce stropicciata dal fumo seducente di centinaia di sigari si stirava con saudade contro le corde sfibrate di una sudata chitarra, mentre il tempo cercava di penetrare quel canto disperato e profondo. Isabel scostò la ciocca di capelli e vide la sua immagine riflessa contro i cristalli di zucchero del suo bicchiere di vino. Era stropicciata come quella voce, malinconica come quel canto, sola come ognuno di quegli uomini al bancone. Sulle loro braccia i muscoli custodivano la forza degli antichi marinai che da quel porto erano partiti alla volta di altri orizzonti, ignoti come il loro destino.
Prese il bicchiere tra le mani. L’alcol l’avrebbe stordita, rendendola fragile e ancora più sola, ma almeno sarebbe stata libera per un po’. Una ragazza si avvicinò al suo tavolo:
“Cosa prende?”
Scegliere in quel momento sarebbe stato impossibile.
“Un altro di questo”. Così era facile.
Attraverso una piccola finestra aperta sul porto si lasciò incantare dalla nebulosa di luci traballanti. L’aria era gustosa, sapeva di sale. Il cielo era bucato da migliaia di stelle. Meravigliose ma morte.
Prese il cellulare che aveva comprato in uno dei negozi del centro. Lo schermo si illuminò. Aprì una mail e cominciò a scrivere quello che non avrebbe mai confessato se quella sera, in uno dei locali storici di quella città, una voce increspata e impastata di nostalgia e alcol, non le avesse regalato quel nuovo orgasmo di sentimenti. Lei poteva essere ancora viva, vibrare come quella musica, come quelle note in equilibrio sull’anima, destinate a cadere, ma non prima di aver provato la follia di essere incanto.lisbona1 foto