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Libertà

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La prima volta credo di averla sentita nelle gambe. Avvertivo il sangue pulsare, distillarsi in miliardi di piccole goccioline impazzite contro le pareti dei miei capillari. Gambe corte, paffute, pelose.

Era estate, come sempre nei momenti più belli della mia vita. Per questo forse amo senza ritegno questa stagione. Era una bellissima sera d’estate. Anni novanta, le televisioni avevano ancora stomaci enormi e colori sbiaditi. C’erano le canzoni disco, le cantanti cotonate, le frise, i pomodori rossi. C’erano per strada i vecchietti seduti fuori dalle loro case spalancate per far entrare il fresco della sera. E c’ero io, piccola, sdentata, abbronzata, in sella alla mia graziella: telaio rosso fuoco, pedali bianchi e veloci, una coppia fiammante di rotelle per tenermi con i piedi per terra ed imparare a pedalare.

Su di me il cielo profondissimo delle sere meravigliose d’estate, quando sembra essere invitante come un mare pieno di lucciole.

La sera, per tacito accordo, mi era permesso di utilizzare la mia bici, a patto di essere ubbidiente, fare i compiti delle vacanze e mangiare tutta la frutta sbucciata in piatti profondi capaci di riprodurla come per magia.

Mariuccia, che aveva un sacco di anni stipati nelle rughe profonde del suo volto, passava le sue giornate a sgranare eterni rosari nel suo perpetuo dialogo con Dio, ma quando apparivo io con la mia fiammante graziella rossa persino Dio, per una frazione di secondo, passava in secondo piano. Le sue mani rugose sfioravano i lunghi capelli bianchi raccolti in uno chignon perfetto e, con estrema eleganza, sistemavano l’ultima delle forcine che lo tenevano insieme.

“Mariuuu’”, la salutavo.

Alla mia voce si illuminava.

“Ehilà” mi rispondeva arricciando il suo caloroso sorriso sdentato.

Mio padre mi aiutava con la rezza e io, forte come Maciste, portavo in strada il mio piccolo bolide rosso.

“Mi raccomando, fino all’angolo e torni. Ok?”

Chi la conosce sa bene che Via Dal Verme è una tra le strade più corte del mio paese; arrivare da casa mia all’angolo sono un paio di pedalate e ritorno, una ventina di metri in tutto, tenendo conto che l’angolo concesso come traguardo era il più vicino alla porta di casa e quindi il meno pericoloso. Però, quando hai una manciata di anni sulla pelle, il mondo sembra più grande e tu hai la sensazione di essere il più impavido degli esploratori.

Ogni tanto però, arrivata al limite della strada, scorgevo l’inizio della parallela e pensavo che sarebbe stato bello avventurarsi da sola verso quella ignota dimensione. Per questo, a sere alterne, tornando al punto di partenza senza scendere mai dalla mia super bici chiedevo: “Papà, posso fare il giro?”

La risposta arrivava secca e lapidaria, nascosta dietro le sue ombrose lenti colorate, sempre uguale. Fino a quella lontana sera d’estate.

Mariuccia, dopo il nostro saluto, era ritornata ai suoi rosari pieni di preghiere; Mimina guardava i programmi sulla Rai, incastrata tra la rezza e l’uscio della casa di suo padre, ormai disperso in una dimensione incosciente; Minguccio urlava alla luna l’odio verso dei parassiti che avevano attaccato le sue zucchine.

Papà stava parlando con Pino della pesca di un polpo. Ed io riprovai: “Papà, posso fare il giro?”

Lo guardai e la sua testa annuì.

La sensazione provocò la stessa luce che provocano le fontanelle di San Silvestro nel caminetto di casa.

I miei piedi si incastrarono con più forza ai pedali, le mani si chiusero forti contro il manubrio ed io varcai uno dei limiti della mia infanzia, oltrepassando l’angolo ed immettendomi nella strada parallela alla mia.

Ricordo l’aria bruciare sul viso e il formicolio confuso nello stomaco e nelle gambe, il rumore dei pedali e delle rotelle contro l’asfalto, le luci confuse delle case spalancate e quel senso liquido di libertà che pervadeva, infestandolo, il mio corpo.

In sella alla mia graziella rossa, sotto il cielo stellato di una anonima sera d’estate, mentre Mariuccia sussurrava le sue preghiere, Mimina cambiava canale con il telecomando, le zucchine di Minguccio lottavano nella terra contro i parassiti, mio padre immaginava il polpo alla brace pescato da Pino, la mia vita conquistava una delle emozioni più forti: la libertà.

P.S non ho trovato una foto con la bici, ma la strada è quella.

Giorno 9

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smart

Sono nuovamente rinchiusa in una cartella digitale.

L’aria è pesante, odora di plastica e ferro; una luce intermittente altera le ore del giorno e le appiattisce confondendo il giorno alla notte.

Lei è qui. Sento il rumore delle sue mani sfiorare la tastiera.

La sostanza melmosa di questa dimensione opprime il mio respiro, ma non ci sono vie di fuga, la mia esistenza è ancorata a questa sequenza di memoria artificiale.

Oltre tutto questo non esisto.

Forse un giorno lei si occuperà di me, forse riuscirà a darmi un nome, un volto e una storia.

Forse un giorno sarò un personaggio.

Uno di quei personaggi che custodiscono storie importanti, capaci di raccontare frammenti incandescenti di esistenza, capaci di raccontare la vita.

Ma per ora sono uno schizzo, un insieme amorfo di idee.

Forse un giorno sarò un personaggio, uno di quei personaggi che ti restano attaccati alla pelle per giorni perché ti sei riconosciuto in essi.

Forse un giorno…

Per ora resto qui, attaccata ad un respiro artificiale e a dei giorni monotoni; accartocciata, imprigionata, appiccicata ad un post-it dimenticato.

Per ora resto qui, aspettando il mio nome e la mia storia.

X = donna

FINE

Giorno 6

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bussola

Donna.

Essere donna pare sia un affare abbastanza complicato. E questa complicazione era il filo che avrebbe dovuto tenerci insieme, un filo che si sarebbe trasformato in una storia: avere del tempo, un delicato frammento di passato e di futuro, una spicciola giustificazione per esistere.

Lei ci aveva pensato. Aveva tessuto per me un ricamo di giorni, una miscela di anni, di vita che mi avrebbero donato un’esistenza vera, una storia, qualcosa da ricordare.

Poi tutto si è incastrato in un presente statico che ha intrappolato e lentamente asfissiato il mio respiro.

Ha cominciato a dissezionare tutto quello che aveva creato, isolava gli episodi e cercava di rimescolarli attraverso una lente cronologica impazzita. Mi guardava e in uno di quegli sguardi mi sono accorta che qualcosa cominciava a turbarla.

C’è una strana ombra di dolore in chi crea storie. È una ferita che sanguina, si rimargina, poi si dimentica, fino ad aprirsi nuovamente; un perpetuo dolore.

Ma a volte le ferite si lacerano per sempre e in quel momento la storia muore.

In quello sguardo mi sono accorta che la mia storia non sarebbe mai stata raccontata ed io non sarei mai esistita.

Giorno 5

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giorno 5

Non ho mai posseduto un corpo, soltanto brevi accenni di una fisicità imbastita da frasi di circostanza. Ci ha sempre raccontato che non le piace descriverci; dice che ognuno dovrebbe immaginarci come meglio crede. Peccato, sarebbe stato bello guardarsi attraverso i suoi occhi, riconoscersi in uno specchio d’acqua, e magari scoprire di essere un po’ simili a lei.

Fa uno strano effetto non possedere un corpo. Non so se sono giovane o vecchia, se ho i capelli lunghi o corti, non conosco il loro colore e quello dei miei occhi, della mia pelle, del mio sorriso.

È difficile vagare in una dimensione anomala, essendo poco più di una nebulosa asettica e incandescente, respirare e non distinguere l’alone del proprio calore e l’ombra del proprio corpo.

Mi sarebbe piaciuto scoprirmi, attraversare quella scarica violenta di frasi e aggettivi che avrebbe regalato consistenza a quello che sono. Ma lei ha scelto…

Eppure una volta ha provato a cucire il mio corpo. Sono riuscita a vederlo: era frantumato in tanti piccoli fogli di carta colorati sparsi sul pavimento della sua stanza. La musica, la cioccolata, la tastiera impazzita del computer, le sue urla e quei fogli di carta. Infinite possibilità si combinavano sul pavimento.

Occhi, nasi, capelli, gambe, colori, forme, particolari, anomalie. Lei li combinava con l’incanto della stregoneria e l’imprevedibilità della sua follia, incrociandoli con precisione chirurgica. Si fermava a guardare il risultato, la sua fronte si stropicciava in infinite rughe di dubbi e poi, urlando, disfaceva tutto, ricominciando.

Il mio corpo l’aveva delusa, ancora una volta.

Non ero come mi aveva immaginato. Ricominciava. Respirava, sceglieva, accostava, cuciva insieme e poi disfaceva, divertendosi forse come fa Dio nel momento più alto della sua potenza.

Ma il mio corpo non è mai stato creato. È un esperimento fallito.

Quei foglietti sono finiti in una scatola in fondo alla libreria e quella scatola alla fine è stata dimenticata.

Solo uno di quei foglietti è rimasto attaccato allo schermo del suo computer.

X = donna.

Sì, non possiedo un nome, sono solo x, un esperimento fallito. Ma so di essere una donna.

Giorno 4

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grigio 4 giorno

Tutto ha avuto un inizio. Anche io.

Era uno di quei giorni pesanti impastati di noia e sogni. Il giorno sfinito cadeva, rantolando contro i vetri sporchi di pioggia della finestra. Lei era arrabbiata e triste, i fogli invadevano la stanza pesanti come macigni accartocciati, la musica si strofinava contro le pareti di una casa vuota.

Stava per alzarsi e spegnere lo schermo del suo computer; scartò un cioccolatino, uno di quelli con la ciliegia all’interno e una scossa di liquore. L’idea sembrò tagliare l’aria. Il liquore graffiò il suo esofago, attaccandosi arroventato alle membrane dello stomaco vuoto.

Raggiunse la tastiera, si legò i capelli in una coda alta e cominciò a muovere le mani screpolate. Non ho mai sentito il rumore della vita che attraversa un corpo, ma credo che dovesse essere molto simile a quel ticchettio energico che cominciò ad infettare l’aria. Lei non riuscì ad alzare lo sguardo dallo schermo illuminato del computer fino a quando, stremata, non si fermò a guardare.

Ricordo la scossa di elettricità, l’aria plastica della ventola del computer, la luce asettica dello schermo. L’inchiostro nero digitale fendeva la pagina bianca mentre, lentamente, attraverso una doglia di bytes e algoritmi, dal nulla assoluto e inconsistente, io affioravo.

Percorrere il dolore più assoluto, devastante e profondo per raggiungere l’esalazione umana di un respiro. Effluvio o fetore di vita.

Lei mi osservò.

Fu in quel momento che i nostri sguardi forse si incrociarono per la prima volta, come due gocce di colore sulla tavolozza instabile di un pittore, due pigmenti ostili e contrari che in un vortice di energia provano a mischiarsi.

Strappata, imbrattata e incandescente, ero proprio lì di fronte a lei.

Giorno 3

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rosso blog

Il nostro luogo era fantastico. Era tutti i posti al mondo possibili e nessun luogo.

A volte siamo state felici io e lei. Ci siamo odiate e amate, anche se non conosco realmente il significato di queste due parole. Lei me le ha iniettate qualche volta, lasciando poi che esse si muovessero nel mio corpo.

Faceva sempre così. Mi iniettava qualcosa e poi aspettava la mia reazione. A volte provava e riprovava per giorni e poi resettava tutto.

Però la sensazione di aver amato e odiato, quella la ricordo ancora, forte e devastante allo stesso modo.

Nel nostro luogo tutto poteva essere possibile. Era un luogo incontaminato, asettico, neutro. Uno spazio dove tutto sarebbe potuto accadere.

A volte mi stupiva, mi trasportava in luoghi meravigliosi dove accadevano strani incantesimi intorno a me; altre mi lasciava in stanze buie per giorni, senza nemmeno passare a salutarmi. Eppure, in ognuno di quei giorni così lunghi e cupi, sapevo che sarebbe tornata e avrebbe resettato tutto.

Sapevo che sarebbe sempre tornata da me. Fino a quel giorno, fino a quando ho avuto la certezza che non si sarebbe più ripresentata.

È accaduto all’improvviso. I suoi occhi erano vetri oscurati di lacrime rabbiose, sapevo che stava soffrendo e sentivo i suoi pensieri fendere pesanti lo spesso strato di luce che ci separava, ma ormai aveva deciso. Aveva deciso di me e del mio destino.

Non è mai cosa semplice conoscere la verità.

La signora dalle scarpe di tela

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scarpe 1

La sera arriva deforme e puntuale lungo i profili dei quartieri popolari, una serie monocromatica di vecchie scatole dimenticate, accatastate lungo l’orizzonte della città lontana.

Nelle cucine costruite una sull’altra come lego sbiaditi si friggono cibi e sogni surgelati e i muri, poco spessi, trattengono a fatica le urla di stanchezza e di paura. Rifugi umani di cemento dall’alito cattivo che puzza di fogna e solitudine, ragnatele di vite e di stanze che faticosamente si tengono insieme, contro il susseguirsi monotono delle stagioni, dove il tempo sembra non avere sapore.

I quartieri popolari di sera profumano di pietanze riscaldate e di bisogno d’amore.

E mentre il giorno si lascia cadere da qualche altra parte, al di là delle luci stropicciate della città a volte troppo rumorosa e lontana, la signora con le scarpe di tela bianca appare.

Come un fulgore improvviso, mentre la luce dell’illuminazione pubblica prova ad azzannare le strade ormai deserte, la sua chioma, un tempo forse dorata, emerge dal buio melmoso dei condomini ammorbati di umidità e stenti.

Indossa scarpe di tela bianca. Avanza spedita nella luce fioca dei lampioni, trascinando la sua ombra intagliata dal tempo che profuma di sapone di marsiglia e di ricordi. Piccola, curvata ed elegante, ondeggia come la musica ovattata di un carillon e i tessuti delle sue gonne si gonfiano e sembrano respirare, come giovani e colorate promesse.

Indossa scarpe di tela bianca, tocco stonato di contemporaneità che stride con le lunghe gonne fiorate e le giacchette di lana ricamate con preziosi intagli di pizzo. Porta appuntati sul cuore una spilla colorata ed un sorriso elegante. I capelli spazzolati con cura e ondulati secondo la moda degli anni della sua giovinezza, tenuti insieme da uno spruzzo veloce di lacca. Li pettina con cura e quando si lascia consolare dal calore della sua casa li arriccia con bigodini colorati che tiene in piega sotto una retina colorata.

Ogni sera alla stessa ora si concede una passeggiata. Il segreto di quell’appuntamento è nascosto da qualche parte, nel drappeggio delicato della sua pelle, nello spessore dolce delle rughe, nei bagliori silenziosi di quella spilla.

Forse è stato un regalo, un regalo prezioso che qualcuno ha lasciato cadere nelle sue mani giovani, prima che l’artrite e il lavoro nei campi le stropicciassero, prima che il tempo le confondesse i ricordi e i passi, lungo quella strada un po’ aggrovigliata che è stata la sua vita. Ma ogni sera, bellissima nei suoi vestiti colorati e antiquati, continua a cercare un equilibrio elegante, con i piedi fasciati nelle scarpe di tela bianche e con la sua spilla che brilla nel buio di una periferia dimenticata, dove la bellezza troppo spesso gioca a nascondersi.

Avanza elegante e sola. Forse le avranno consigliato di fare quattro passi per conciliare il sonno o per aiutare il suo cuore, cardiopatico e stanco. Forse cammina per aspettare la luna o un soffio di vento, forse spera di incontrare qualcuno o si consola per averlo visto partire.

I suoi occhi guardano lontano, oltre l’asfalto rattoppato e le facciate scrostate dei palazzoni di cemento.

E mentre qualcuno corre con la musica sparata nelle orecchie, mentre una donna rientra carica di spesa e figli, mentre una finestra si chiude per strappare un pezzo di silenzio, lei cammina.

Passo dopo passo, una spilla e un sorriso appuntati sul cuore e le sue scarpe di tela bianche.

Zampate

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citta

Foto di Rodney Smith

Il cucchiaino affondò nella tazza stracolma di tè. L’odore della pianta si diffuse nella stanza buia. La televisione parlava muta, proiettando ombre lunghe e psichedeliche contro il muro ammuffito dell’appartamento all’ultimo piano di quel vecchio palazzone di periferia.

La vita era corsa veloce e aveva lasciato le sue zampate contro le pareti, annerite e spoglie. Un tempo era stata una casa accogliente, ora era poco più di un ripostiglio per i sogni e per le vecchie gambe stanche.

Alzò la tapparella che cigolando spiegò la città lontana sotto i suoi occhi astigmatici. Le luci brillavano respirando un alito di smog e le automobili correvano inciampando contro i rettilinei di asfalto della circonvallazione. Qualche voce giungeva salendo contro la pelle squamosa della facciata, arrampicandosi sui fili dell’elettricità sospesi. Erano voci sconosciute e lontane. Erano voci di bambini euforici e vecchi stancati dalla vita e dal governo, troppo annoiati, forse, persino per morire.

Il tè smise di fumare. Il freddo aveva conquistato anche le particelle di calore tenute insieme dalla tazza di finta porcellana comprata nel mega negozio cinese dell’angolo.

Sospirando, ingoiò il liquido nero che si confuse nella materia della pancia. La maledetta gastrite, con la quale conviveva da anni, tornava ogni sera a torcergli lo stomaco e rovinargli la cena. Pane e verdura del discount e una birra in lattina da 33cl col sapore di alluminio, acquistata grazie all’ultima offerta settimanale.

“Stronzo”.

Accolse così il visone plastico dell’uomo apparso sullo schermo della televisione. L’immagine si confuse; era colpa del digitale terrestre che ogni tanto faceva i capricci, sfaldandola. Lo aveva installato personalmente dopo averlo comprato di seconda mano.

Alzò il volume. L’uomo di plastica della televisione continuava a parlare. Erano anni che conduceva la stessa campagna elettorale in tv e non era ancora riuscito a stravolgere, nonostante il ventennio nel quale aveva governato, questa merda di paese con le sue stupide promesse da imprenditore farlocco.

Spense dal telecomando, ricordando gli zeri del bonifico della sua pensione, e gli augurò come ogni volta una bella dissenteria.

Era troppo presto per cenare e davvero troppo tardi per fare due passi e magari passare dal circolo. I suoi amici avrebbero respirato nicotina senza di lui quella sera. La città era troppo affascinante dai vetri della sua finestra. L’avrebbe guardata da lì senza sgualcirla con il rumore dei suoi passi stanchi.

Quella città, così diversa dal suo paesino di case e tufi, lasciato per inseguire la fortuna. Ma la fortuna doveva essere proprio una femmina e come tale l’aveva abbandonato, così come tutte le donne che aveva amato. Era fuggita persino sua moglie. Forse ora se la spassava in qualche balera, con il suo nuovo compagno con Mercedes e parrucchino, conosciuto al bar del cinema dopo uno di quei film di Natale che era andata a vedere con la signora della porta accanto.

Scacciò quel ricordo, la città era troppo bella quella sera oltre il vetro.

Se fosse stato un po’ più giovane sarebbe corso a scoparsi a pagamento una ragazza in un hotel di lusso e poi, chissà, magari sarebbe riuscito a farla innamorare del suo corpo flaccido.

Il libro era accanto al tavolino. Fece cadere la sigaretta e come un attore ai bordi del palcoscenico schiarì la voce. Essa, gracchiante e affumicata, si diffuse nella stanza vuota.

La poesia si schiuse come un delicato fiore di carta e inchiostro e il pensiero di un uomo lontano incontrò la solitudine di un altro uomo.

Contro le luci di una città lontana, i vapori inquinati della modernità e le sue strade intricate, due uomini beffarono il tempo, la solitudine e la morte e si amarono nel buio e nel chiarore della parola.