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Giorno 9

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Sono nuovamente rinchiusa in una cartella digitale.

L’aria è pesante, odora di plastica e ferro; una luce intermittente altera le ore del giorno e le appiattisce confondendo il giorno alla notte.

Lei è qui. Sento il rumore delle sue mani sfiorare la tastiera.

La sostanza melmosa di questa dimensione opprime il mio respiro, ma non ci sono vie di fuga, la mia esistenza è ancorata a questa sequenza di memoria artificiale.

Oltre tutto questo non esisto.

Forse un giorno lei si occuperà di me, forse riuscirà a darmi un nome, un volto e una storia.

Forse un giorno sarò un personaggio.

Uno di quei personaggi che custodiscono storie importanti, capaci di raccontare frammenti incandescenti di esistenza, capaci di raccontare la vita.

Ma per ora sono uno schizzo, un insieme amorfo di idee.

Forse un giorno sarò un personaggio, uno di quei personaggi che ti restano attaccati alla pelle per giorni perché ti sei riconosciuto in essi.

Forse un giorno…

Per ora resto qui, attaccata ad un respiro artificiale e a dei giorni monotoni; accartocciata, imprigionata, appiccicata ad un post-it dimenticato.

Per ora resto qui, aspettando il mio nome e la mia storia.

X = donna

FINE

Giorno 8

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Giorno 8

Il risveglio è uno strano momento.

Tutto sembra essere avvolto da una coltre spessa di possibilità o di ombre. Il corpo tace come tutto il resto, impietrito in una strana sensazione di torpore così simile alla morte.

Strani formicolii percorrono i nervi rilassati e assuefatti dalla lunga notte di buio e di silenzio, attraversati da scosse di ossigeno silenziose.

Il risveglio è uno strano momento. Un attimo lunghissimo di equilibrio in cui stentiamo a ricordare, in cui proviamo a riconoscerci e a riconoscere il nostro corpo e la sua storia.

Mi sono risvegliata e la mia fuga era finita. Forse non mi sono mai mossa da dov’ero, forse ho solo dormito, attraversando quella strana poltiglia notturna fatta di sogni e stelle.

Forse è stato solo un déjà-vu, un fenomeno di alterazione dei ricordi, una di quelle cornici oniriche che apriamo durante la notte per spiare la nostra vita, non avendo abbastanza coraggio per farlo durante il giorno.

Mi sono spiata.

Forse viviamo solo la proiezione di un qualcosa di sfuggente che si consuma da qualche altra parte. Tutti siamo personaggi. Tutti componiamo e disfiamo storie come fossero sogni e come tali li addentiamo, li assaporiamo, permettiamo che essi ci illudano, prima di lasciarli scivolare e fuggire.

Siamo storie, le nostre, quelle degli altri, quelle che leggiamo.

Il flusso narrativo di una vita incandescente ci attraversa o ci lascia cadere su ripide scogliere dalle quali restiamo acquattati come predatori pronti a sbranare le storie degli altri. Perché è proprio quello che ci rende più vitali: vivere le storie degli altri.

Il risveglio è uno strano momento; la vita si confonde, si insinua nei tranelli più feroci della mente e lascia che essa ne venga assuefatta.

Il risveglio è un momento di morte.

Giorno 7

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Giorno 7

Sono scappata. Sono riuscita a sfidare la dimensione nella quale lentamente aveva lasciato che cominciasse la mia lenta agonia. Sono scappata prima di essere definitivamente cancellata.

Sono un esperimento fallito, sono un personaggio abortito, una storia soffocata.

Mi sarebbe tanto piaciuto essere, esistere, raccontare, ma nell’atto della mia creazione qualcosa è andato storto.

Eravamo una di fronte all’altra, le nostre esistenze si guardavano attraverso la lente deformante della scrittura. Lei aveva distillato gocce di se stessa nei vasi sanguigni del mio corpo di inchiostro e parole, lei faceva parte di me, così come io respiravo attraverso la sua pelle.

La sua scrittura era stata la mia genitrice.

Poi quel taglio improvviso, quella piccola anomalia che squarcia la storia.

È solo un attimo, l’attimo in cui qualcosa non sembra incastrarsi più, l’attimo in cui il filo che crea il ricamo sfugge sfilando il resto della trama.

Mi ha guardato, si è riconosciuta in me, nel riflesso della mia ombra, e ha scelto.

Sono rimasta sospesa in una dimensione digitale. Ansimavo alla ricerca di uno spiraglio di possibilità. Ho graffiato il foglio, urlato, implorato.

Ma nella sua mente mi stava ormai già raschiando via, come si fa con il battito del feto ancorato alle pareti dell’utero. Le due vite sincroniche battono insieme, poi una scioglie il legame e l’altra annaspando viene estirpata per sempre.

Sono un esperimento fallito, sono un personaggio abortito, una storia soffocata.

Giorno 6

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Donna.

Essere donna pare sia un affare abbastanza complicato. E questa complicazione era il filo che avrebbe dovuto tenerci insieme, un filo che si sarebbe trasformato in una storia: avere del tempo, un delicato frammento di passato e di futuro, una spicciola giustificazione per esistere.

Lei ci aveva pensato. Aveva tessuto per me un ricamo di giorni, una miscela di anni, di vita che mi avrebbero donato un’esistenza vera, una storia, qualcosa da ricordare.

Poi tutto si è incastrato in un presente statico che ha intrappolato e lentamente asfissiato il mio respiro.

Ha cominciato a dissezionare tutto quello che aveva creato, isolava gli episodi e cercava di rimescolarli attraverso una lente cronologica impazzita. Mi guardava e in uno di quegli sguardi mi sono accorta che qualcosa cominciava a turbarla.

C’è una strana ombra di dolore in chi crea storie. È una ferita che sanguina, si rimargina, poi si dimentica, fino ad aprirsi nuovamente; un perpetuo dolore.

Ma a volte le ferite si lacerano per sempre e in quel momento la storia muore.

In quello sguardo mi sono accorta che la mia storia non sarebbe mai stata raccontata ed io non sarei mai esistita.

Giorno 5

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giorno 5

Non ho mai posseduto un corpo, soltanto brevi accenni di una fisicità imbastita da frasi di circostanza. Ci ha sempre raccontato che non le piace descriverci; dice che ognuno dovrebbe immaginarci come meglio crede. Peccato, sarebbe stato bello guardarsi attraverso i suoi occhi, riconoscersi in uno specchio d’acqua, e magari scoprire di essere un po’ simili a lei.

Fa uno strano effetto non possedere un corpo. Non so se sono giovane o vecchia, se ho i capelli lunghi o corti, non conosco il loro colore e quello dei miei occhi, della mia pelle, del mio sorriso.

È difficile vagare in una dimensione anomala, essendo poco più di una nebulosa asettica e incandescente, respirare e non distinguere l’alone del proprio calore e l’ombra del proprio corpo.

Mi sarebbe piaciuto scoprirmi, attraversare quella scarica violenta di frasi e aggettivi che avrebbe regalato consistenza a quello che sono. Ma lei ha scelto…

Eppure una volta ha provato a cucire il mio corpo. Sono riuscita a vederlo: era frantumato in tanti piccoli fogli di carta colorati sparsi sul pavimento della sua stanza. La musica, la cioccolata, la tastiera impazzita del computer, le sue urla e quei fogli di carta. Infinite possibilità si combinavano sul pavimento.

Occhi, nasi, capelli, gambe, colori, forme, particolari, anomalie. Lei li combinava con l’incanto della stregoneria e l’imprevedibilità della sua follia, incrociandoli con precisione chirurgica. Si fermava a guardare il risultato, la sua fronte si stropicciava in infinite rughe di dubbi e poi, urlando, disfaceva tutto, ricominciando.

Il mio corpo l’aveva delusa, ancora una volta.

Non ero come mi aveva immaginato. Ricominciava. Respirava, sceglieva, accostava, cuciva insieme e poi disfaceva, divertendosi forse come fa Dio nel momento più alto della sua potenza.

Ma il mio corpo non è mai stato creato. È un esperimento fallito.

Quei foglietti sono finiti in una scatola in fondo alla libreria e quella scatola alla fine è stata dimenticata.

Solo uno di quei foglietti è rimasto attaccato allo schermo del suo computer.

X = donna.

Sì, non possiedo un nome, sono solo x, un esperimento fallito. Ma so di essere una donna.

Giorno 4

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Tutto ha avuto un inizio. Anche io.

Era uno di quei giorni pesanti impastati di noia e sogni. Il giorno sfinito cadeva, rantolando contro i vetri sporchi di pioggia della finestra. Lei era arrabbiata e triste, i fogli invadevano la stanza pesanti come macigni accartocciati, la musica si strofinava contro le pareti di una casa vuota.

Stava per alzarsi e spegnere lo schermo del suo computer; scartò un cioccolatino, uno di quelli con la ciliegia all’interno e una scossa di liquore. L’idea sembrò tagliare l’aria. Il liquore graffiò il suo esofago, attaccandosi arroventato alle membrane dello stomaco vuoto.

Raggiunse la tastiera, si legò i capelli in una coda alta e cominciò a muovere le mani screpolate. Non ho mai sentito il rumore della vita che attraversa un corpo, ma credo che dovesse essere molto simile a quel ticchettio energico che cominciò ad infettare l’aria. Lei non riuscì ad alzare lo sguardo dallo schermo illuminato del computer fino a quando, stremata, non si fermò a guardare.

Ricordo la scossa di elettricità, l’aria plastica della ventola del computer, la luce asettica dello schermo. L’inchiostro nero digitale fendeva la pagina bianca mentre, lentamente, attraverso una doglia di bytes e algoritmi, dal nulla assoluto e inconsistente, io affioravo.

Percorrere il dolore più assoluto, devastante e profondo per raggiungere l’esalazione umana di un respiro. Effluvio o fetore di vita.

Lei mi osservò.

Fu in quel momento che i nostri sguardi forse si incrociarono per la prima volta, come due gocce di colore sulla tavolozza instabile di un pittore, due pigmenti ostili e contrari che in un vortice di energia provano a mischiarsi.

Strappata, imbrattata e incandescente, ero proprio lì di fronte a lei.

Giorno 3

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Il nostro luogo era fantastico. Era tutti i posti al mondo possibili e nessun luogo.

A volte siamo state felici io e lei. Ci siamo odiate e amate, anche se non conosco realmente il significato di queste due parole. Lei me le ha iniettate qualche volta, lasciando poi che esse si muovessero nel mio corpo.

Faceva sempre così. Mi iniettava qualcosa e poi aspettava la mia reazione. A volte provava e riprovava per giorni e poi resettava tutto.

Però la sensazione di aver amato e odiato, quella la ricordo ancora, forte e devastante allo stesso modo.

Nel nostro luogo tutto poteva essere possibile. Era un luogo incontaminato, asettico, neutro. Uno spazio dove tutto sarebbe potuto accadere.

A volte mi stupiva, mi trasportava in luoghi meravigliosi dove accadevano strani incantesimi intorno a me; altre mi lasciava in stanze buie per giorni, senza nemmeno passare a salutarmi. Eppure, in ognuno di quei giorni così lunghi e cupi, sapevo che sarebbe tornata e avrebbe resettato tutto.

Sapevo che sarebbe sempre tornata da me. Fino a quel giorno, fino a quando ho avuto la certezza che non si sarebbe più ripresentata.

È accaduto all’improvviso. I suoi occhi erano vetri oscurati di lacrime rabbiose, sapevo che stava soffrendo e sentivo i suoi pensieri fendere pesanti lo spesso strato di luce che ci separava, ma ormai aveva deciso. Aveva deciso di me e del mio destino.

Non è mai cosa semplice conoscere la verità.